La dignità dell’orrore: Hiroshima e la bomba atomica

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No, non potevo farne a meno. Quando abbiamo iniziato a progettare l’itinerario che avremmo seguito in Giappone, avevo una sola certezza: dovevo andare – assolutamente! – ad Hiroshima. Per chi è stato bambino negli anni ’60-70, l’incubo nucleare era qualcosa di tangibile, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro in tutta la sua follia. USA contro URSS, cortine di ferro e muri di acciaio, Baie dei porci e telefoni rossi che da un momento all’altro sembravano dover trillare per dare il via all’ecatombe atomica. Nei sussidiari (ma esistono ancora?) leggevamo la storia straziante di Sadako Sasaki, simbolo di tutte le vittime della follia umana che da una parte gettava bombe per poi stracciarsi le vesti nel rammarico, e della sua lotta contro il tempo per realizzare 1000 gru in origami che secondo la tradizione le avrebbero permesso di esprimere e realizzare il suo desiderio più grande: sopravvivere alle radiazioni.

Dovevo andare ad Hiroshima. Il mio istinto mi obbligava a compiere questo pellegrinaggio laico, da trasformare in una richiesta di perdono da parte di chi, abitando in un Paese lontano oltre 12.000 km., poteva solo immaginare il nido di angoscia e dolore in cui si erano rifugiati gli abitanti di Hiroshima per riuscire a sopravvivere non tanto alle radiazioni o alla distruzione, quanto all’asfissia della memoria.

E quindi, tra lo splendore di Kyoto e l’eleganza di Kanazawa  – non smetterò mai di esser  grata a questa città così serena e tranquilla, che ci ha rassicurato e confortato dopo l’orrore provato nella città della prima bomba atomica utilizzata a scopo bellico contro esseri umani – la visita di Hiroshima ci ha lasciati muti, increduli, perfino timorosi di commentare tra di noi le emozioni ed il dolore provato.

Che arriva improvviso, come una lama calata con forza da un guerriero mitologico, affilata e dolorosa.

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Perché all’inizio tutto appare uguale a qualsiasi altra grande città giapponese, il treno Shinkansen che arriva puntuale, la stazione grande e priva di personalità, gli inchini dei ferrovieri, le onnipresenti e validissime guide volontarie che aiutano gli occidentali smarriti ad orizzontarsi nella topografia della città fatta di grattacieli, case e abitazioni moderne sorte lungo il  fiume che sfocia nel mare.

Sarà stato un caso, ma al nostro arrivo il cielo di Hiroshima era coperto, nuvole minacciose sembravano in procinto di sciogliersi in gocce purificatrici. Dalla stazione la strada è pressoché obbligata: si può anche prendere l’autobus (sono tre-quattro fermate) o meglio ancora si va a piedi, passando prima sull’isola che divide il fiume in due bracci per poi proseguire lungo la via principale, su cui si affacciano banche, negozi, ristoranti e si incontrano persone che camminano indaffarate o ciclisti che pedalano veloci: cerchi di scrutare i volti, di vedere se negli sguardi che incroci c’è terrore o disperazione, ma non non trovi nessuna traccia  di vuoto, di morte, di sconfitta. Sorrisi, quelli si, tanta voglia di sorridere.

Semmai è il caos di palazzi a lasciare storditi: si è in un luogo a lungo immaginato eppure tutto sembra così differente dalla costruzione mentale che ci ha accompagnato negli anni della nostra vita. Da quel 6 agosto del 1945 sono passati  70 anni, Hiroshima è rinata, sterilizzando le sue paure, isolandole e trasformandole in energia per la ricostruzione. E nel mentre cominci a rilassarti e lasci andare la tua paura di bambina che piangeva disperata sulle pagine di “Il Gran Sole di Hiroshima” di Karl Bruckner, libro di lettura scelto da una maestra che non aveva timore di dispensare l’orrore della morte a bambini privi di difese psicologiche.

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All’improvviso, repentino, cambia il panorama che ti circonda: i palazzi lasciano  spazio ad un grande parco verde racchiuso tra i canali del fiume e ti trovi davanti all’Atomic Bomb Dome, quello che una volta era la Camera di Commercio di Hiroshima ed ora è simbolo assoluto della distruzione, sfacciato come solo può esserlo un avanzo di mura le cui finestre vuote sopravvissute allo scoppio della bomba sono porte di comunicazione con il tuo inconscio. Un rudere situato nel cuore dell’ipocentro dell’esplosione, dove trovano rifugio tutte le paure, gli orrori ed il panico di una nazione colpita a morte, di soppiatto e senza possibilità di appello.

Con Francesco giriamo attorno al monumento inebetiti: siamo davanti alla follia dell’uomo e ne abbiamo timore. Nonostante ciò, tutto attorno la sensazione è di pace, di tranquillità. Sul fiume  Kyobashi-gawa, che scorre poco distante, si vedono attraccate le barche che portano fino a Miyajima, mentre pensionati seduti sulle rive sono intenti a dare briciole di pane ai passerotti. Continuiamo ad aggirarci nel Parco della memoria: ogni installazione ha una sua storia oppure rimanda a persone, a fatti accaduti 70 anni fa, quando l’Enola Gay sganciò la bomba, che esplose a 576 metri di altezza dal suolo e fece – nell’immediato – oltre 60.000 morti.

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Incrociamo il punto informativo ricavato in quello che nel 1945 era un negozio di kimono, rimasto fortunosamente in piedi e, poco accanto, la Statua dei bambini vittime della bomba atomica con la sagoma stilizzata di Sadako Sasaki: con le braccia levate a tenere una gru stilizzata mi ricorda una statua di Cristo sulla croce. Più avanti il Cenotafio della memoria è al centro della spianata che crea un’unico asse con il Memoriale della Pace: all’interno del Cenotafio sono custoditi i registri dell’anagrafe con i nomi di tutti coloro che sono  morti a causa dell’esplosione nucleare e la fiamma perennemente accesa è di monito a tutti gli uomini  affinché non si ripeta più l’orrore;  scritta in tutte le lingue (si, c’è anche l’italiano, ed io non riesco a trattenere le lacrime) la traduzione dell’esortazione:

Che tutte le anime siano in pace, affinché non si ripeta questa malvagità

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Proseguiamo ancora fino a trovarci al cospetto del Memoriale della Pace, edificato nel 1954 su progetto dell’architetto Kenzo Tange: da fuori è un monolite rettangolare di cemento sollevato su pilastri. Non un museo o una cattedrale della memoria, ma una scatola sospesa dove una volta entrati si ripercorre ogni singolo attimo dell’esplosione. Per accedere al Memoriale della Pace si pagano pochi spiccioli, si lasciano ombrelli, borse ingombranti  e cappotti o giacche al guardaroba e si entra in un corridoio bianco e lungo. Percorrendolo, si ha la sensazione di attraversare una porta temporale, dove il vissuto di ieri è ancora attuale.

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La sensazione si amplifica nel percorso lungo le varie sale, dove l’orrore e la desolazione lasciata dell’esplosione nucleare sono mostrati con una dignità estrema: “è successo, ci siamo trovati noi nel mezzo, sarebbe potuto succedere a chiunque, anche a te” sembra essere il messaggio che promana dalle bacheche di vetro, custodi di brandelli di vita e di esistenze vaporizzate nell’aria.

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Fa stringere il cuore vedere il triciclo bruciato, i vestiti carbonizzati (che una volta rivestivano un bambino, una donna, un giovane: tutti liquefatti, spariti, vaporizzati dall’estremo calore sprigionato dall’esplosione),  il plastico di come era Hiroshima nel 1945, la riproduzione della bomba, le mille gru di carta create da Sadako, oggetti parte della vita quotidiana di persone normali.

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E’ una cappa di aria irrespirabile, fatta di dolore liquido, quella che pian piano avvolge il visitatore  che si addentra nel Memoriale della Pace: ad un certo punto subentra la ricerca spasmodica dell’aria, la voglia di uscire da questo buco di orrore senza fine. Si torna alla luce con l’animo in subbuglio, si scorrono velocemente le migliaia di lettere lasciate da persone comuni così come dai potenti della terra: in ciascuna c’è l’auspicio affinché mai più accada quel che è successo ad Hiroshima (e che, non dimentichiamolo, poco dopo venne replicato a Nagasaki).

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Prima di uscire dal Memoriale, si incontrano volontari che insegnano a realizzare le gru di carta di Sadako: se andate a visitare il Memoriale della Pace di Hiroshima fermatevi e costruitene una anche voi, da riportare a casa: l’attenzione richiesta dalla carta che deve essere piegata in angoli e linee perfette vi aiuterà a staccare dalle emozioni e nello stesso tempo sarà un omaggio alle vittime della bomba atomica.

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Finita la visita al Parco della Memoria, vi troverete di nuovo davanti all’Hiroshima dei grandi palazzi e delle vie trafficate. Vi resta ancora da visitare il Castello circondato dal fossato, copia ricostruita nel 1958 di quello  che venne distrutto dalla Bomba ed oggi sede del museo storico dei Samurai e fare una passeggiata seguendo la lunga via coperta del mercato Hondori, con i suoi infiniti negozi e ristoranti seguendo i volti sorridenti dei ragazzi in divisa scolastica che, mentre guardano le vetrine, guardano avanti, guardano oltre.

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Informazioni utili: 

  • Pianificate la visita ad Hiroshima calcolando una giornata, inclusa l’escursione in battello all’isola di Miyajima per vedere il tempio Itsukushima. Per raggiungere l’isola potete risparmiare prendendo il treno (e se avete la JRPass non vi costa nulla): dalla stazione di Hiroshima prendete la linea JR Sanyo fino alla stazione di Miyajimaguchi Station (circa 27 minuti di percorrenza) quindi prendete il traghetto che vi porta ae Miyajima (altri 10 minuti di viaggio). Trovate il tempio di Itsukushima a 10 minuti a piedi di distanza.

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  • Se da Hiroshima  dovete proseguire verso sud, può essere utile pernottare in città per poi proseguire. Mentre se fate base a Kyoto sono all’incirca due ore di treno Shinkansen ed è possibile fare l’escursione in giornata, partendo molto presto e tornando dopo le 21.00 (in Giappone la sicurezza è altissima per cui non abbiate timore a viaggiare di sera);
  • I costi dei ristoranti di Hiroshima è meno elevato di quello di Kyoto e Tokyo;
  • Un piatto caratteristico della città sono le ostriche fritte.
  • Ad Hiroshima noi abbiamo pernottato presso il Grand Prince Hotel, sulla baia.
Claudia Boccini

Curiosa di novità e di tendenze sociali e culturali, il mio karma è il viaggio

2 Comments

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    Amisaba Maggio 13, 2015

    Sembra strano dirlo ma hai scritto un bellissimo post, Claudia; ‘strano’ per l’argomento tragico. Un omaggio, il tuo, alle vittime e una guida utile a risvegliare la nostra sensibilità a volte distratta.

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      Claudia Boccini Maggio 14, 2015

      E’ uno di quei post “di pancia” che di tanto in tanto mi escono di getto, in cui le parole fluiscono da sole e non fanno altro che esprimere le emozioni. Mi fa piacere che sia riuscita a trasmettere il nostro stato d’animo ad Hiroshima. Grazie!

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