Visitare Kyoto: tre giorni sono pochi

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Ho dovuto far trascorrere dei mesi – anzi, addirittura un paio di stagioni – prima di decidermi a riprendere in mano il materiale del viaggio in Giappone e raccontare quella che è stata la visita di Kyoto. Lo ammetto – e so bene che ora che si leverà un coro di protesta – Kyoto è la città giapponese che mi ha donato meno emozioni lasciandomi fondamentalmente insoddisfatta. Forse è per questo che ancora non avevo scritto nulla, quasi che volessi  far  cadere nell’oblio della memoria i tre giorni trascorsi a visitare  Kyoto seguendo ritmi compulsivi.

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Fa strano sentire una simile affermazione, vero? In genere tutti sono entusiasti dell’antica capitale del Giappone, impazziscono per i suoi quartieri fatti di case di legno e di vie linde in cui l’acciottolato brilla lucido come dopo un acquazzone intenso, quasi tutti  esplodono in gridolini di meraviglia davanti ai suoi millemila templi, che sono belli ed interessanti e che sono piaciuti tanto anche a noi. Ma quello che voglio provare a spiegare è che a me, Kyoto, non ha lasciato quasi nulla dentro: mi è apparsa come un fotogramma perfetto, impeccabile, in cui vanno in scena colori cangianti a misura di reflex, panorami fatti di colline verdi ed un dedalo di vie illuminate da vetrine che si susseguono una dopo l’altra, senza soluzione di continuità, pronte ad offrire mercanzia e realizzare sogni.

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Siamo arrivati a Kyoto da Tokyo nel primo pomeriggio, utilizzando il mai abbastanza lodato Shinkansen, treno veloce e puntuale che regala una indimenticabile esperienza viaggio e che in 2 ore e 40 collega le due città, passando attraverso campi innevati e campagne gelate. Appena il tempo di fare il check.in e depositare le valigie nel nostro hotel, il Sakura Terrace, che già partivamo per fare un primo giro esplorativo e visitare Kyoto a bordo dell’autobus numero 100 – che insieme al bus 101 si può  definire il bus più frequentato dai turisti perché percorre un itinerario che tocca tutte le maggiori attrazioni della città.

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Kyoto è una città dove il turista affamato di Giappone trova nutrimento facile, dove ci si riempiono gli occhi di kimono, in cui si vedono decine e  decine di geishe e maiko (vere o farlocche? Chissà: tra le ragazze giapponesi – e non solo – che vengono in gita a Kyoto è uso noleggiare in negozi specializzati sontuosi kimono per passeggiare e farsi ammirare così abbigliate lungo la via Shijo Dori e per le stradine Gion).

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Dopo aver vissuto con entusiasmo il caos organizzato di Tokyo ed i mille e più stimoli che la capitale giapponese riesce a regalare all’occidentale curioso,  ancora prima di scoprire la cultura di un Giappone tradizionalmente reale a Kanazawa, la tappa di Kyoto non mi ha saputo sorprendere, non mi ha fatto innamorare. Ho apprezzato i suoi templi e palazzi più famosi (del Kinkaku-ji, del Ginkaku-ji e del castello feudale Nijo-jo vi parlerò nel prossimo post su Kyoto),  ho provato a contare i Torii rossi che si susseguono a Fushimi Inari, ho seguiti con attenzione le guide che citavano luoghi e date, ho camminato cercando il genius loci (*) ma senza trovarlo o trovandone uno diverso da quello che mi aspettavo.

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Ovviamente la mia è una valutazione soggettiva, so bene che Kyoto è una delle destinazioni preferite e che in un viaggio di scoperta della Terra del Sol Levante non può mancare. Ma qui io non parlo della sua anima – con tanti templi in città non può non essere una città spirituale –  ma della sua pelle, del guscio che la avvolge,  la stringe e che la mostra.

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Il centro della città è una successione infinita di negozi, tutti allineati e protetti dalle caratteristiche tettoie che permettono il passeggio e le shopping sia con il caldo torrido che con la neve, gli antichi quartieri sono invasi da turisti e purtroppo in alcuni punti si leva il profumo dell’attrazione turistica, i templi – grandi o piccoli non fa differenza – li ho sentiti lontani dalla spiritualità che avevo provato a Nikko e che poi avrei ritrovato a Nara ed a Kanazawa. Anche Nishiki, il mercato coperto più famoso della città, è un susseguirsi di gallerie piene di negozi, più o meno economici, più o meno divertenti (si, ci ho fatto shopping, lo ammetto: tanti piccoli oggettini di cartoleria a poco più di 100 yen l’uno,  impossibile resistere!), in un alternarsi continuo di tradizioni orientali ed ispirazioni occidentali.

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Kyoto, il suo centro moderno, la gigantesca stazione ferroviaria costruita su progetto di Hiroshi Hara – è stata spesso la nostra “casa” dove siamo riusciti a sfamarci anche in orari impossibili – , la torre della televisione che assomiglia ad una trottola scappata dalla cesta dei giochi di un bimbo gigante, l’intrico delle vie e delle case legate tra loro da un gigantesco macramé di fili della corrente elettrica (come in tutto il Giappone, i fili corrono liberi lungo le strade, in un groviglio inestricabile) visto con la luce del sole mi è sembrato incapace di sopportare il peso della sua fama.

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Solo con il giungere del tramonto, quando la luce del sole perde la sua intensità, le vie si svuotano  e gli angoli delle case  diventano meno netti, cambia la percezione della città: appaiono dettagli che nella ressa del giorno sfuggono al turista frettoloso, prendono forza le immagini riflesse nell’acqua, i bagliori sospesi che accompagnano il lento discendere del silenzio su Kyoto. Mentre le strade si svuotano di autobus ed auto, i turisti battono in ritirata negli hotel e pian piano si spengono le luci delle vetrine, i suoi mille templi si illuminano e la millenaria capitale del Giappone ritrova sostanza, la stessa che ha forgiato la cultura raffinata ed ha dato perfezione alle arti.

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Kyoto non mi è entrata nell’anima, mi è “scivolata addosso“, ma so che se soltanto avessi potuto assistere a ben più di tre tramonti lungo le rive del fiume Kamo, il suo spirito si sarebbe rivelato. Kyoto è fatta a strati, questo l’ho capito solo dopo, e tre giorni sono troppo pochi per sollevare anche solo lo strato più esterno. Perché alla fine il mio, il nostro, è stato solo solo un incontro da turisti frettolosi, e Kyoto non ama la fretta.

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Forse è questo i mistero: Kyoto non  si offre a chi non ha tempo per lei, si rivela solo a chi ha la pazienza e la costanza di assorbirne, poco alla volta, la sua essenza. Con il senno di poi, devo ammetterlo: per visitare Kyoto tre giorni sono pochi.

E prima di me, con ben più autorità ed esperienza, lo dice nel suo Orizzonti anche Patrick Colgan, uno che il Giappone lo conosce e lo ama:

Kyoto è che una città accogliente, ma anche sfuggente, che si apprezza solo con tempo e costanza.

*****

Nota: la foto che apre il post è la statua di Okuni, donna giapponese del del XVII° secolo che ha sfidato le convenzioni e i ruoli attribuiti alle donne dando vita ad una forma teatrale anticonvenzionale poi diventata famosa come Kabuki. Nel Kabuko di Okuni recitavano esclusivamente donne di bassa estrazione sociale o addirittura prostitute, tuttavia nel tempo le donne verranno estromesse perché ritenute “scandalose” ed immorali (e te pareva… tutto il mondo è paese!), sostituite da uomini che interpretavano anche ruoli femminili. La statua si trova lungo le rive del fiume Kamo, nel punto in cui incontra Shijo Dori.

(*) genius loci: entità soprannaturale legata ad un luogo
(**) macramè: tecnica di intreccio di fili annodati per creare merletti
Claudia Boccini

Curiosa di novità e di tendenze sociali e culturali, il mio karma è il viaggio

5 Comments

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    Daniela Dicembre 09, 2015

    Bellissimo articolo complimenti, che racchiude perfettamente lo stato d’animo di molti che si approcciano per la prima volta a Kyoto. Anche a me la prima visita alla città lasciò un po’ così, a metà tra la delusione e la voglia di capire meglio la città. E per una studentessa di giapponese (all’epoca) la cosa fu abbastanza scioccante, ero arrivata nella città dei mille templi carica di aspettative dopo anni di studio, eppure la città mi lasciò quasi indifferente, nonostante la sua bellezza. Ma non fu mai paragonabile all’impatto che ebbi con Tokyo, città che ancora oggi ho nel cuore, e che per me rimane Il Giappone, per le emozioni che ha saputo darmi. Kyoto con il tempo ho imparato ad apprezzarla, e ho capito che il suo fascino va scoperto a poco a poco, non fermandosi al primo impatto e continuando a scavare, ad andare oltre. Ed è per questo che quando nel 2013 sono tornata con quello che ora è mio marito, ho preferito dedicare meno giorni a Tokyo e lasciare più spazio a Kyoto, perché so quanto questa città necessiti di tempo. E comunque alla fine lui ha amato molto di più Tokyo e continua a ripetermi di voler tornare che ci siamo stati troppo poco! 😀

    A presto e complimenti per il blog! 🙂

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    Patrick Ottobre 06, 2015

    Un bellissimo post che racconta bene la sensazione che si può provare a Kyoto, come per esempio a Venezia – secondo me -, città belle e turistiche, che se viste di fretta, saltando da un luogo famoso all’altro, possono sembrare una fredda sequenza di cartoline senz’anima. Kyoto richiede il lusso di perderci del tempo, di fermarsi più a lungo di quanto preventivato. Ho avuto la fortuna di intuirlo nel primo viaggio in Giappone, fatto come andrebbero fatti i viaggi (ma così difficile da fare quando si hanno i giorni contati), senza un itinerario rigidamente prestabilito, senza avere tutte le notti prenotate. E decisi di restare più a lungo di quanto avevo pensato, di tagliare altre tappe che avevo immaginato, di perdermi, di camminare. E proprio mentre ero lì è guardavo il tramonto, le colline lontane dal ponte sul Kamogawa, pensai che sarei dovuto tornare.
    Oggi forse è più difficile. Le ultime volte che sono tornato i turisti erano aumentati a dismisura (stanno crescendo con percentuali a due cife negli ultimi anni), trovare posto in albergo è diventato più difficile – nell’ostello dove andai la prima volta non sono più riuscito a prenotare. Ma a Kyoto bisogna dare tempo, di questo ne sono convinto anche io.

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      Claudia Boccini Ottobre 06, 2015

      Grazie per il tuo commento, Patrick e ben tornato dalla Nuova Zelanda!
      Ho pensato davvero tanto prima di scrivere questo post, in realtà non sapevo soprattutto se scriverlo o meno ma ad un certo punto ho capito che dovevo farlo, soprattutto per me stessa: mettere insieme pensieri sparsi che vagavano senza avere un ordine logico mi ha aiutato a fare chiarezza. Altrimenti, per me Kyoto sarebbe per sempre restata come la città “senza anima”. Perché Kyoto mi è piaciuta, ma c’era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa che non riuscivo ad esprimere.
      Bisognerebbe, in fondo, non avere la presunzione di capire una città, un luogo, solo con pochi giorni a disposizione e di accettarsi per quello che si è in questi casi: solo turisti.

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    stefano Ottobre 06, 2015

    bell’articolo complimenti 🙂 tra meno di 1 mese saro’ li’ di nuovo e mi hai dato qualche spunto di cose che non avevo visto da vedere xD

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      Claudia Boccini Ottobre 06, 2015

      Allora fai in tempo a leggere “Kyoto parte II”, che sto preparando: sarà un post molto più tecnico!

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