Felicità è: cambiare ufficio per cambiare vita

Oggi è un giorno importante, per me. Forse a te che leggi non potrà interessarti men che nulla ma voglio farti sapere che da oggi, dopo talmente tanti anni che non bastano le dita delle mani e dei piedi per contarli, è tempo di cambiare ufficio per cambiare vita. No, non mi sono licenziata, non ho fatto un cambiamento così radicale e per mia fortuna – e di questa fortuna ne sono ampiamente consapevole e grata – continuo a lavorare in un ente in cui il posto fisso è ancora una certezza. Ho semplicemente – ma se hai pazienza di continuare a leggere vedrai quando peso ha, questo ‘semplicemente’ – deciso di cambiare ufficio. Può sembrare poco, ma è tutto se la precedente attività era legata a doppia catena con tutto ciò che ruota attorno ai responsabili di Governo e ai cosiddetti vertici politici.

Da quando ho iniziato a lavorare – per saperne di più cercate sul mio profilo su Linkedin – sono sempre stata in uffici speciali, particolari, assolutamente diversi da tutti gli altri uffici di una Amministrazione pubblica, in cui le giornate iniziano al mattino e finiscono la sera tardi, in cui spesso il pranzo diventa merenda (oppure proprio non diventa) e il rientro a casa è solo uno spazio ridotto di tempo per una doccia e qualche ora di sonno prima di ricominciare da capo. Uffici dalle passatoie rosse, addetti all’anticamera in divisa e atmosfere rarefatte, in cui però l’emergenza è la normalità, l’urgente è lo standard di ogni attività ed in cui è altamente apprezzato l’essere multitasking, proattivi, totalmente flessibili. Uffici capaci di entusiasmare e di coinvolgerti come pochi altri, in cui ti pare di essere parte di strategie che hanno il potere di incidere sulla vita dei cittadini. Uffici speciali a cui corrispondono stipendi interessanti, sicuramente più gratificanti rispetto a quelli di tanti altri colleghi, anche se nessun compenso potrà mai restituirti il tempo trascorso e l’alienazione che pian piano e inevitabilmente prende il sopravvento. Orari prolungati e turni da rispettare, reperibilità da assicurare, festività saltate e ferie difficili da chiedere (e quando lo fai, è sempre con un po’ di senso di colpa insito, perché ‘pare brutto’ allontanarsi quando l’attività ferve e potrebbe esserci bisogno di te!).

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Lo ammetto: per tanti anni mi sono divertita a fare quel che ho fatto, è stato un lavoro realmente ‘tagliato su misura’ per me, che sono curiosa e inquieta di natura, che mi piace mettermi in gioco e scoprire di possedere capacità di resistenza e di resilienza che nemmeno sospettavo di avere. Pazienza se abdicavo la mia vita – nei rari momenti di lucidità ero consapevole che si trattava di un lavoro adatto a chi non aveva grandi impegni familiari – vuoi mettere l’adrenalina di un lavoro che non è mai uguale a se stesso, in cui ogni mattina non sai esattamente cosa potrà succedere (perché in politica non esistono certezze)? Ero entrata in un circolo vizioso pazzesco: più lavoravo (bene) più ero apprezzata e più volevo lavorare per essere ulteriormente gratificata.

Ho quasi rinunciato ad affetti, per troppo tempo ho scordato che i giorni sono fatti anche di albe rosa e di tramonti rossi e non solo di mattine e sere buie, ho venduto il mio tempo e la mia vita ritagliando per le mie passioni scampoli insufficienti di tempo. Ed il bello è che coscientemente non me ne accorgevo. Mi accontentavo di una parvenza di gratificazione (morale, economica) mentre pian piano stavo perdendo del tutto il controllo della mia vita. Mi rifiutavo perfino di dare ascolto ad una costrizione incredibile alla gola, che mi stringeva il respiro e lo trasformava in  affanno ne’, tanto meno, mi chiedevo da cosa derivasse un’insonnia che scacciava un sonno abitato da incubi. I sintomi da stress e insoddisfazione c’erano tutti, ma  ancora non volevo capire. Continuavo a barcamenarmi tra avere ed essere, tra orari assurdi e voglia di libertà, senza osare di aprire realmente gli occhi e quindi decidere di cambiare ufficio.

Però qualche cosa deve essersi rotto, non so dire bene il momento preciso, forse è stato un processo lento che man mano è maturato nel tempo, forse è stato il commento sincero e compassionevole di una amica che non vedevo da tempo, forse ho capito che il ‘re è nudo’ oppure, più semplicemente, ad un certo punto ho esaurito lo slancio che mi faceva considerare il mio come il lavoro migliore che avrei mai potuto fare. Sapevo che potevo cambiare ufficio, c’erano lavori belli ed interessanti dove poter esprimere le mie capacità senza rinunciare a vivere, ma come sempre quel che è più difficile nelle scelte è fare il primo passo, trovare il coraggio di saltare la siepe lasciando il recinto conosciuto e gettare avanti il cuore.

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Di certo, negli ultimi tempi ero sempre meno convinta e meno emotivamente coinvolta, lasciavo libera la mia vena dissacratoria e anti-autoritaria che mi porto dietro dai tempi dell’asilo e cercavo – io che non ho mai dato peso al denaro o, comunque, non gliene ho mai dato più di tanto – di auto-convincermi che l’impegno di lavoro totalizzante era ripagato dal  denaro che guadagnavo in più rispetto ai miei colleghi assegnati ad altri uffici. Trenta denari, poco più, che per quel che mi riguarda finivano in taxi per rientrare comodamente a casa la sera all’uscita dal lavoro o fluivano incontrollati in spese superflue che avevano il compito non di rispondere ad un bisogno materiale ma unicamente di compensare stress, insoddisfazione, senso di costrizione. La scelta di cambiare ufficio e chiedere una assegnazione diversa – non meno impegnativa, ma diversa e con orari e ritmi meno concitati – ad un certo punto è diventata obbligata, perché rischiavo di farmi davvero del male e ritrovarmi con reali problemi di salute. Soprattutto, è stata una scelta meditata, perché se c’è qualcosa che ho imparato sulla mia pelle è che nulla è più importante di me stessa.

Una scelta che ha seguito un percorso lento, graduale, che ha costernato alcuni colleghi e fatto brindare altri che, ancor prima che avessi in mano le carte per la diversa assegnazione di ufficio, già si sfregavano le mani pensando alle mie attività ‘ad alto tasso di visibilità’ (mors tua vita mea, dicevano i latini e a quanto pare non c’è nulla di nuovo sotto il sole!).

Oggi, 1° maggio 2018, è tempo di cambiare ufficio. E cambiare anche vita. Oggi chiudo, dopo tanti anni, una pagina della mia attività lavorativa in cui ho messo al primo posto le esigenze di altri e in secondo piano le mie. Una rinuncia consapevole in cui il concetto di decrescita felice non è poi così alieno – avere di meno (denaro, beni) per avere di più (tempo) –  perché se è vero che avrò uno stipendio meno interessante in cambio avrò maggiore tempo per me, per Francesco, per seguire le mie mille passioni e per migliorare e far crescere ancora il blog.
E, sarà un caso, ma da quando ho preso la decisione di cambiare ufficio, respiro liberamente, ho le spalle leggere e guardo l’orizzonte senza eccessive ansie.
Claudia Boccini

Curiosa di novità e di tendenze sociali e culturali, il mio karma è il viaggio

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