La ricetta del pani ca meusa, street food palermitano

Quando si parla di street food italiano, il mio pensiero corre immediatamente ai mercati, ricchi, colorati e pieni di vita di Palermo, in pratica un buffet a cielo aperto pronto a soddisfare l’appetito (e la golosità) di cittadini e turisti. Bastano pochi euro per pranzare abbondantemente en plein air, una scelta assai difficile per chi si trova a confrontarsi tra pane e panelle, pani ca meusa diverse da chiosco a chiosco, arancine (femmine, mi raccomando!), sfincioni, babbaluci, stigghiole e frittole. Lo street food di Palermo, come tutti gli striitfud del mondo, nasce povero e di recupero, utilizza ingredienti spesso scartati da lavorazioni più nobili e tramuta – grazie al contributo di lunghe cotture – sapori complessi (eufemismo per non dire forti e difficili) in delizie di una bontà indicibile, che giusto il tempo dell’assaggio e già vi obbligheranno a fare il bis!

Alcuni capisaldi dello street food palermitano (per saperne di più, leggi il post I sapori dello street food palermitano) vanno assaggiati con un atto di fede, senza chiedersi di cosa si tratta e nemmeno senza indagare troppo su modalità di preparazione o se vi sia un puntuale rispetto di disposizioni di igiene pubblica. Andate in uno dei mercati di Palermo (io vi consiglio quello del Capo, frequentato dagli stessi palermitani che vi fanno la spesa quotidiana), munitevi di tovagliolini di carta – e sì,  lo street food palermitano tende ad usare condimento con abbondanza – e iniziate la vostra degustazione.

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Lo street food di Palermo nasce dall’unione della tradizione greca, araba, ebraica, normanna e poi ancora spagnola. E’ cibo del Mediterraneo in cui il pesce si allea con la carne, gli ortaggi ed i legumi con il grano. Sono i sapori che sbarcavano dalle navi che attraccavano a Palermo dopo aver attraversato il Mediterraneo da porti lontani. Cibo povero ed allo stesso tempo entusiasmante, che una volta tornati a casa vi verrà voglia di provare a replicare. No, non ci riuscirete del tutto, ve lo dico subito, potrete solo avvicinarvi ai sapori che pervadono le vie di Palermo perché vi mancheranno le spezie, la materia prima, i tempi lunghi che permettono agli ingredienti di amalgamarsi tra loro e dar vita a sapori totalmente coinvolgenti. Però ci si può provare, soprattutto con le pietanze meno complesse, come le panelle (in cui la farina di ceci è l’ingrediente principale, così simili alla cecìna livornese sebbene quest’ultima sia cotta al forno e non fritta). Ma si può provare anche a cimentarsi con la più complessa ricetta del pani ca meusa, che sebbene la sua preparazione sia piuttosto facile, necessita di ingredienti non sempre facilmente rinvenibili. Che dite, ci proviamo?

La ricetta del pani ca meusa:

  • innanzitutto, per la ricetta del pani ca meusa sarebbe fondamentale il tipico pane palermitano definito vastella, morbido e con la crosticina cosparsa di semi di sesamo ma,  se non disponibile – e i palermitani mi perdonino – andrà bene un panino rotondo all’olio. Il pane deve contenere, essere avvolgente ed esaltare i sapori forti della meusa;
  • il secondo step della ricetta del pani ca meusa prevede che recuperiate recuperate dal vostro macellaio di fiducia milza e polmone di vitello (sono parti facilmente deperibili, non a caso ho usato il termine ‘di fiducia’!);
  • lessate le frattaglie e tagliatele a fettine, quindi mettetele a cuocere in una padella di ferro in cui avrete sciolto abbondante strutto (ed ecco che viene fuori l’anima saporita, popolare e povera del piatto!). Aggiungete sale  se occorre;
  • al momento di servire il pani ca meusa, tagliate in due il panino e farcitelo con le frattaglie cotte ben calde e scolate dal grasso, aggiungete del succo di limone oppure, se la volete più ‘robusta’ – maritata, il termine in uso a Palermo –  aggiungete una buona spolverata di formaggio cacio cavallo grattugiato (o, per chi ama sapori meno intensi, ricotta di pecora, oppure un mix di cacio cavallo e ricotta) e buon appetito!

La ricetta del pani ca meusa ha una storia ultracentenaria e nasce al tempo in cui a Palermo viveva una folta comunità ebraica: chi di mestiere macellava gli animali per la Comunità non aveva diritto ad alcuna retribuzione (in sintesi il concetto ebraico è: non si paga per uccidere) e venivano quindi offerte loro, come contropartita, le interiora degli animali. Non potendo però gli ebrei mangiarle perché considerate impure dalla kasherùt, e volendo trarne comunque un vantaggio economico, queste venivano bollite e trattate a mo’ di stracotto per poi essere vendute arricchite di formaggi ai cristiani, che non avevano troppi divieti sul cibo.

Curiosità: non sole l’uso delle interiora, ma anche l’unione di carne e formaggio in uno stesso pasto è un accostamento vietatissimo dalla kasherùt 🙂

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Informazioni utili:

  • per ulteriori informazioni sulla città di Palermo, consiglio di approfondire su Palermo Welcome, sito istituzionale del Comune di Palermo dedicato al turismo;
  • aòcune informazioni per questo post sono state tratte dalla pubblicazione “Il cibo nelle mani“, curata da Gaetano Basile per l’Assessorato Regionale del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo della Regione Sicilia ed edita nel 2010 (opuscolo preso presso il punto di informazioni turistiche all’angolo tra via Maqueda e Piazza Bellini, vicino alla chiesa di San Cataldo, quella con le tre cupole arabe rosse.
Claudia Boccini

Curiosa di novità e di tendenze sociali e culturali, il mio karma è il viaggio

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