Le conseguenze del coronavirus: perché mi preoccupo

Da più di un mese l’Italia convive con il coronavirus, alcune Regioni (Veneto, Lombardia ) sono coinvolte in modo più impattante di altre e oramai aspettiamo – con ansia mista a quel tipico fatalismo italiano, talvolta mascherato da falsa indifferenza – il bollettino serale della protezione civile che ci aggiorna sui virus-positivi, sugli ammalati, sui guariti e, ahimè, anche sui decessi avvenuti. Le conseguenze del coronavirus non hanno tardato a farsi sentire. In termini di impatto umano nonché sociale, economico, sanitario (ne ho già in parte accennato nel post sull’emergenza coronavirus).

Il coronavirus –  con un nome così potrebbe sembrare quasi apparire simpatico, simile ad ad un emoji rotondo e birichino con una coroncina in testa, in realtà è un gran figlio di madre di facili costumi –  è un virus molesto e complicato, esattamente come la  sigla ufficiale di SARS-CoV-2 che lo identifica.

Nell’immediato, il virus ha modificato l’esistenza di numerosi italiani, costringendoli a navigare a vista tra chiusure obbligate, scuole sbarrate, quarantene necessarie, zone rosse, tamponi ed auto-isolamento di sicurezza. Ma non è questo che mi preoccupa di più, ne’ la gestione dell’emergenza sanitaria (abbiamo un servizio sanitario universale tra i migliori del mondo, anche se non sempre ce ne rendiamo conto) quanto l’impatto che l’emergenza virus avrà nel medio e lungo periodo: oltre ai danni economici, che ci sono, ci saranno e non saranno da nulla, le conseguenze del coronavirus stanno alzando barriere alla nostra propensione alla socialità, alla condivisione, alla leggerezza.

Pian piano stiamo perdendo la fiducia nel futuro, ragioniamo sul qui ed ora e non sul domani. Non ci facciamo più incantare dal sogno e in questi giorni complicati sono tornati ad emergere, trovando terreno fertile nel sospetto dell’untore e della peste di manzoniana memoria, istinti primari atavici (la paura dell’altro, il timore della carestia), in un crescendo di gocce di ansia che portano inevitabilmente al panico incontrollato.

Giorno dopo giorno ci ritroviamo uguali eppure diversi e le abitudini forzatamente modificate ci rendono più fragili. Accanto alla razionalità, ed alla fiducia nei lumi e nella scienza che da qualche secolo ci accompagna, torna prepotentemente ad emergere la paura. Certo, dipende anche dalla reazione cerebrale istintiva,  in cui prevale il sistema limbico e in particolare l’amigdala, la parte più profonda e antica del cervello, quella in cui nascono le emozioni primarie e l’istinto di sopravvivenza. Siamo più indifesi di quel che vogliamo far immaginare, e davanti al pericolo, come i nostri progenitori, scappiamo o (metaforicamente) saliamo sulla cima degli alberi più alti.

La corsa all’accaparramento dei beni alimentari è frutto di campagne media scriteriate? Sì, certo, perché se alle persone che sono già spaventate aggiungi altro spavento, crei il panico. E’ però anche parte di quella irrazionalità dell’emergenza che ci contraddistingue come esseri umani quando odoriamo un pericolo.

Non so se tu che leggi abiti nelle Regioni maggiormente coinvolte, non conosco il tuo modo di vivere questa situazione ne’ il tuo pensiero – che ovviamente potrebbe essere del tutto diverso dal mio – in ogni caso io so che da quando il coronavirus è apparso in scena, qualcosa è cambiato nella mia vita, nella prospettiva del fare, del progettare e del programmare.

Perché per quanto ci si sforzi di vivere normalmente (e a Roma non abbiamo ancora problemi troppo evidenti, quindi potrebbe tutto essere più semplice, più easy, no?), per quanto non ci si voglia pensare,  la vita al tempo del coronavirus sta facendo riemergere paure ataviche e ci spinge a chiuderci nel nostro giardino, fatto di amicizie selezionate, di familiari, di valori semplici. Di piccoli e di grandi egoismi, anche.

Ragioniamo sul qui ed ora (tuttalpiù possiamo provare a pensare al domani e al dopodomani), non abbiamo certezze su cosa succederà a livello sociale, lavorativo, economico – quasi sicuramente una batosta ci sarà e non leggera – e la prudenza (e in molto casi, l’impossibilità) ci spinge a non frequentare luoghi troppo affollati a meno che non ce ne sia reale bisogno.

Tra le conseguenze del coronavirus vi è l’emergere del sentimento del sospetto: si prendono i mezzi pubblici guardando con attenzione il proprio vicino di posto, al minimo colpo di tosse ci si intabarra nelle sciarpe rapidamente trasformate in copertine di Linus e si sfregano in continuazione le mani con l’introvabile Amuchina; si va nei supermercati a fare la spesa rapidamente, cercando di evitare contatti e sorrisi; se si acquista con la valuta al posto delle carte di pagamento si maneggia il denaro con timore.

Ho perfino la percezione che si stia spendendo complessivamente meno, che si evitino gli acquisti d’impulso o quanto meno superflui e si cerchi di non sperperare in attesa di capire cosa succederà nei prossimi tempi (sia chiaro: questa è una mia percezione, non suffragata da nessuna fonte, sarebbe molto interessante conoscere anche la tua idea in proposito).

In ogni caso, si fa fatica a fare progetti. Tutto è cristallizzato: difficile pensare ora come ora alle vacanze, a feste, alla convivialità gioiosa.

E quando l’emergenza sarà rientrata, le conseguenze del coronavirus si faranno sentire a lungo. Bisognerà rimboccarsi le maniche, recuperare il tempo perso, lanciare a regime sostenuto la produzione, la promozione dell’Italia come Paese e recuperare la sua affidabilità come destinazione accogliente e sicura, quasi sicuramente ci saranno di nuovo piccoli-grandi sacrifici da fare (la recessione economica è dietro l’angolo, non me lo invento io), insomma ci aspetteranno giorni e mesi impegnativi.

Eppure, alla fine, questa lunga notte di paura non sarà stata un male totale. Perché l’emergenza coronavirus ci sta facendo riscoprire valori che pensavamo invecchiati, perduti; ci fa ritrovare il calore della famiglia, la casalinghitudine, il piacere di piccole felicità fatte di nulla. Siamo sì impauriti ma anche più consapevoli,  ci scopriamo più fragili ed allo stesso tempo più umani.

E una parte di noi, io per prima, vuole credere che la fine di questa piaga inaspettata e di dimensioni planetarie è proprio dietro l’angolo. Vuole ritrovare la fiducia nel domani. Ricominciare a vivere. Nel corso della storia le epidemie si sono presentate più volte, ma ce l’abbiamo sempre fatta, mille e poi altre mille volte. Ce la faremo anche questa, purché restiamo saldi e uniti. E umani.

 

Claudia Boccini

Curiosa di novità e di tendenze sociali e culturali, il mio karma è il viaggio

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